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Erica Viganò, Allieva del primo anno, studentessa del corso di laurea in Mediazione Interlinguistica e Interculturale dell’Università degli Studi dell’Insubria

Nata da madre giapponese e padre comasco da generazioni, sono l’unica tra i miei fratelli ad usufruire della comodità di avere un solo nome.

Nonostante “Erica” sia valido in entrambe le lingue, in giapponese il mio nome assume un significato preciso dal momento che in Giappone i genitori scelgono gli ideogrammi che compongono il nome in base alle caratteristiche che augurano ai figli. Nel mio caso, dal giapponese “piena di intelligenza, razionalità e profumata”, mia madre ha evidentemente sperato di non dovere avere a che fare con cattivi odori.

Forse tendo spesso a dimenticarlo, ma l’Italia e il Giappone rappresentano sul serio due mondi profondamente e radicalmente diversi. Se riesco a rendermene conto, penso che sia tutto dovuto alla fortuna di avere ricevuto sin da piccola una doppia istruzione. Così, nonostante i miei genitori si siano trovati nella pietosa posizione di dovere spezzare il cuore a una bambina di 5 anni che avrebbe voluto solo andare in giardino a giocare o alla festa di compleanno dei suoi amici, sono cresciuta con l’influenza di due culture differenti.

L’altra diretta conseguenza di questa educazione è stata lo sviluppo di una naturale inclinazione per le lingue, che è fin da subito confluita in una “sindrome da viaggiatrice”. Infatti, se c’è qualcosa che amo più di un buon caffè e delle emozioni che regalano i concerti, questa è proprio viaggiare: viaggiare per scoprire nuovi posti e viaggiare per conoscere nuove persone, cibi e mentalità; ed è proprio parlando con persone che avevano modi diversi di affrontare le varie situazioni e di vivere che ho davvero capito che nulla è eterno: i luoghi cambiano, le persone crescono, il tempo vola ma siamo noi a decidere come impiegarlo.

Sempre sulla scia di questa indole e per la volontà di mettermi costantemente alla prova, terminato il liceo linguistico ho deciso di studiare cinese, lingua che non mi sarei mai aspettata di apprendere. Tuttavia, si è trattata inevitabilmente di un’opportunità che ho colto al balzo quando mi si è presentata l’occasione. Arrivata a questo punto, però, sono curiosa di vedere come sarò tra 10 anni: così com’è successo con Scuola di Como, che mi ha condotta a provare il bando semplicemente per la curiosità che mi aveva suscitato il progetto, sono entrata nell’ottica che anche se qualcosa non funziona, sarà valsa la pena averci provato perché sarà servito da esperienza. Quello che importa davvero è il percorso, la voglia di alzarsi tutte le mattine per cercare di realizzare i propri obiettivi.